Turandot

Come raccontavo qualche articolo fa ho una innata propensione verso il rock. Ciò non significa, però, che disdegni tutto il resto. Da mio padre, per esempio, ho ereditato un certo gusto per la lirica. No, mi sto dando arie: non posso dire di essere una melomane, perché il mio apprezzamento inizia e finisce con Giacomo Puccini e tra le sue opere ce n’è solo una che amo con tutto il cuore. Però quell’una la so a memoria dall’inizio alla fine, cori e sospiri compresi, l’ho vista dal vivo cinque volte di cui l’ultima ieri e se mi proponessero di rivederla oggi pomeriggio lo farei.

Come avrete evinto dal titolo sto parlando di “Turandot”, l’opera incompiuta.

Faccio risalire questo mio amore ad un pomeriggio di pioggia di taaaaanti, troppi anni fa. Avevo l’età per giocare con i puffi, per intenderci. Mio papà decise di raccontarmi una fiaba, facendola “recitare” ai pupazzetti blu, appunto. E scelse il libretto della Turandot. Inevitabilmente finì per incuriosirmi.

L’ho ascoltata – nella versione in vinile diretta da Zubin Mehta e cantata da Lucianone Pavarotti, Joan Shuterland e Monserrat Caballet – quei due, tre milioni di volte…

Ieri la rappresentazione si è svolta al Teatro Carlo Felice di Genova. Sono andata in gita, da vera zitella. Età media dei partecipanti: 60 anni (finalmente mi sono sentita gggiovane, visto che ora con Lui devo sempre chinare la testa e ricordarmi che sono un’ incredibile tardona!).

L’allestimento era molto classico, più che dignitoso. Ottimo il lavoro dell’orchestra e del direttore, Marco Zambelli. Per il cast, vi rimando alla pagina ufficiale sul sito del Carlo Felice. Vi basti sapere che sono stati tutti emozionanti, precisi, appassionati. Insomma: è stato un successo!

Su “Turandot” è stato detto di tutto e di più, perciò anche io ci terrei a dire la mia, ma non posso farlo se non ve la racconto un poco. Quindi, mettetevi comodi.

Sinossi

 

Popolo di Pechino,

la Legge è questa: Turandot la Pura

sposa sarà

di chi, di sangue regio,spieghi i tre enigmi che ella proporrà.

Ma chi affronta il cimento e vinto resta

Porga alla scure

La superba testa!

 

Così un Mandarino annuncia al popolo l’imminente esecuzione del Principe di Persia, ultimo dei tanti pretendenti alla mano della principessa. La folla esaltata invoca l’arrivo del boia e nel tumulto Timur, vecchio e cieco, cade a terra. Liù, la giovane schiava che è con lui, invoca aiuto ed in suo soccorso giunge Calaf, il figlio che Timur credeva morto. Il vecchio è infatti Re dei Tartari, spodestato e in esilio. La sola persona che gli è rimasta accanto è appunto Liù, che si scopre essere segretamente innamorata di Calaf.

Al sorgere della Luna, appare il boia Pu-Tin Pao che porta con sé in corteo il giovane condannato a morte. Alla vista della vittima che procede pallido, la ferocia della folla si tramuta in pietà. Tutti chiedono per lui la grazia, ma la principessa Turandot appare sulla loggia e ne decreta la condanna.

Calaf la vede e rimane abbacinato dalla sua incredibile bellezza. Sordo alle suppliche del padre e della schiava, Calaf vorrebbe suonare il gong che annuncia al Palazzo l’arrivo di un nuovo pretendente, ma i Tre Ministri dell’Imperatore – Ping, Pong e Pang – provano ad impedirglielo ricordandogli che in molti sono morti a causa della difficoltà degli enigmi: tentare la prova significa andare incontro al patibolo.

Calaf è però troppo innamorato. In un impeto di incoscienza, accetta di giocarsi la vita.

I Ministri si lamentano di essere diventati ministri del boia, perché da quando Turandot ha strappato al padre la scellerata promessa le teste cadono a decine, e pregano affinché un giorno giunga un vincitore a spezzare la catena di sangue.

Poco dopo al palazzo, Calaf chiede all’Imperatore di poter sostenere la prova e questi, vedendo che dissuaderlo è impossibile, concede il permesso. Appare allora Turandot in tutta la sua bellezza, la quale spiega che con l’espediente degli enigmi sta vendicando la sua antenata Lou Ling, che secoli addietro venne stuprata e uccisa dal Re dei Tartari che aveva dato battaglia all’impero. L’orrore per la fine della sua antenata ha scatenato in lei il desiderio di non concedersi mai. Offre perciò al principe la possibilità di rinunciare, ma Calaf non si tira indietro.

La prova ha così inizio. Calaf risolve un enigma dopo l’altro e quando dà la risposta del terzo la folla esulta: finalmentela Principessaè sconfitta e dovrà sposarsi.

Turandot, però, rifiuta ancora e chiede a Calaf se – pur di averla – è disposto a prenderla con la forza. Il principe, però, la vuole innamorata e perciò le propone a sua volta un patto: sela Principessariuscirà a scoprire il suo nome entro l’alba, sarà come se egli avesse fallito la prova.

Nella notte di Pechino risuona così il monito delle guardie: nessuno deve dormire, ma tutti dovranno collaborare alla ricerca del nome del principe ignoto, pena la tortura e la morte.

Calaf invoca l’arrivo dell’alba  e della sua vittoria, ma irrompono i tre ministri, seguiti da una piccola folla e da alcune guardie che trascinano con sé Timur e Liù, che sono stati visti parlare con lui. Ping chiama la principessa, sicuro di poter strappare il nome con la tortura. Liù, pur di salvare Timur, dichiara di essere la sola a conoscerlo e di non volerlo dire per amore del suo principe.

La schiava e la principessa si confrontano e, per non tradirsi, Liù si trafigge con un pugnale strappato ad una guardia.

Calaf e Turandot rimangono soli e il principe urla in faccia alla principessa tutto il suo sdegno. Lei, toccata dalla morte di Liù, comincia a mostrare incrinature nella sua maschera di freddezza e Calaf riesce a baciarla, mandando in pezzi il suo orgoglio glaciale.

Turandot, allora, gli confessa di essersi innamorata di lui a prima vista e per questo di averlo temuto ed osteggiato anche più di tutti gli altri. Ora, però, non può più nascondere di essere stata vinta dall’amore e lo scongiura di partire con il suo mistero. Ma a questo punto Calaf le rivela il suo nome mettendo in gioco ancora una volta la sua vita.

Turandot convoca il popolo e, davanti al padre, annuncia di conoscere il nome dello straniero. Infine, esclama che quel nome è “Amore” e prende Calaf come suo consorte.

Miei deliri in proposito.

Non so bene cosa avesse in testa Puccini: so che, sentendo vicina la fine e volendo creare qualcosa di innovativo, la sua Turandot ha un lieto fine. Ma è poi così lieto? Parliamone: Turandot è ‘na vera stronza e sinceramente se si osserva questa fiaba con canoni attuali si può evincere una sola morale: che gli uomini pensano col pisello e che se sei abbastanza bbbona puoi anche ammazzare la gente ma ti vorranno lo stesso, mentre se provi ad essere fedele e docile, a prenderti cura di loro e dei loro genitori, se ti sacrifichi per loro come minimo finirai nel dimenticatoio mentre loro se la spassano con la bbbona qui di sopra.

Bella roba eh?

Ora, in realtà gli studiosi vogliono che la vera eroina sia Liù, che infatti è quella che riscuote più simpatia e strappa più applausi finali. Sarà anche vero, ma lasciatemi dire che io di eroine così sfigate e perdenti ne ho viste poche.

Ciònondimeno, ci sono alcune piccolezze che – durante una rappresentazione teatrale – fanno sorridere, anche se vanno contro le regole dell’opera.

Non particolarmente nella rappresentazione di ieri, ma spesso e volentieri la cantante che impersona Turandot è un po’ meno di un pachiderma. Così, quando Calaf canta: O divina bellezza, o meraviglia! l’impressione generale è quella di volergli chiedere se è proprio sicuro.

Io, poi, che sono una puntigliosa, immagino la vera città imperiale. Nella vera Città Proibita, Calaf avrebbe visto Turandot con le dimensioni di un fagiolino, perché col cavolo che ti facevano avvicinare alla figlia dell’Imperatore. Ma questi sono miei deliri, lo so, lo so.

I miei preferiti – come accade a tutti i bambini (eh eh eh) – sono Ping Pong e Pang. I loro trio  (nella fiaba originale ad opera di Carlo Gozzano erano maschere della commedia dell’arte, e si vede) è decisamente una delle caratterizzazioni più gustose, anche se secondo me il passaggio di Ping al “lato oscuro” nel terzo atto è un po’ troppo repentino. Così come la principessa, che da vera stronza si trasforma in agnellino (grazie a Calaf detto Labbrino D’Oro, evidentemente).

I difetti di caratterizzazione si possono senza dubbio imputare all’interruzione dovuta alla morte di Puccini. Il suo allievo, che completò l’opera, cioè Franco Alfano, dovette lavorare sugli appunti e fece senza dubbio un buon lavoro, tuttavia lo stacco si avverte inevitabilmente.

Per il resto adoro tutto: questa è l’unica opera che mi fa partire la pelle d’oca all’inizio e non mi molla fino alla fine. Costumi preziosi, musica sontuosa con tocchi orientali, passione, fiaba: secondo me in Turandot c’è tutta l’essenza della lirica.

Se riuscite a trovarla vi consiglio la versione interpretata da Franco Corelli – che detto tra noi era anche un gran figo per i canoni della sua epoca – perché secondo me dona a Calaf una espressività di impatto davvero notevole.

Se poi non avete paura di affrontarla dal vivo, quest’anno Turandot è in programma all’Arena di Verona. Ne vale la pena.

Una risposta »

  1. °O°
    … oddio… rinsavisco ora dall’immonda menzogna… cioè…
    alle medie ci avevano fatto recitare Turandot e la professoressa ci aveva raccontato un altro finale, cioè che Calaf mandava Turandot a zappare e s’innamorava di Liu °__° cioè, ci rimango male. Sono rimasta finora con questa convinzione… ma che tristezza O_O

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  2. Mica tanto ò_ò’ non la ricordo con particolare favore…
    A parte ciò, gli ultimi post sono troppo seri per essere intaccati da questa frivolezza, quindi continuo qui: ti ho nominata per un meme 🙂

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